I Pooh: «Non abbiamo scadenze, il palco è la nostra droga» (2024)

Quando nel 1970 si esibirono alle Terme di Caracalla sul palco del Festival Pop dedicato alle allora nuove tendenze musicali, i Pooh esistevano già da quattro anni. Della formazione facevano parte Roby Facchinetti (voce, tastiere), Riccardo Fogli (basso), Dodi Battaglia (chitarra) e Valerio Negrini (batteria): «Tra gli ospiti del festival c’era anche Lucio Dalla, che a causa di un imprevisto si presentò senza il suo gruppo. Ci chiese di accompagnarlo in un blues, così per una sera diventammo il gruppo di Dalla», ricorda Dodi Battaglia. «Quella sera c’ero anche io. Ma con il mio complesso di allora, i Capsicum Red», gli fa eco Red Canzian, che non poteva certo immaginare che tre anni più tardi sarebbe entrato a far parte anche lui della band di Pensiero, dopo l’addio di Riccardo Fogli. Cinquantaquattro anni dopo quella serata, Facchinetti (80 anni), Battaglia (73), Canzian (72) e Fogli (76), 301 anni in quattro, tornano a suonare nell’antico complesso termale capitolino, dove martedì 11 e mercoledì 12 giugno inaugureranno con una doppietta - non fa testo la data zero di questa sera a Termoli, provincia di Campobasso - il nuovo tour “Amici x sempre” che per tutta l’estate vedrà la band orfana del fondatore e paroliere Valerio Negrini (scomparso nel 2013) e del batterista Stefano D’Orazio (scomparso nel 2020 - ad accompagnare oggi i Pooh c'è Phil Mer, classe 1982, figlio della seconda moglie di Canzian, Beatrix Niederwieser) tornare a condividere i palchi dopo l’addio alle scene del 2016 e i concerti negli stadi della scorsa estate. Si collegano al telefono da quattro posti diversi, per l’intervista. L’ultimo ad aggiungersi alla chiamata è Roby Facchinetti, dalla sua Bergamo.


Dica la verità: sta ancora festeggiando la vittoria dell’Europa League della sua Atalanta?
Roby: «Sì (ride). Cose così belle vanno festeggiate per trenta giorni e trenta notti. La città ha aspettato questo trofeo per una vita. Sa che io ho pure scritto due inni per l’Atalanta? Uno nell’’86, Atalanta Azzurra, e uno una decina di anni fa, Magica Dea. Andai per la prima volta allo stadio a 6 anni».


L’Europa League dei Pooh qual è stata?
Roby: «Quando con Uomini soli vincemmo Sanremo, nel 1990. Quindi relativamente tardi. Quella era la prima volta che partecipammo al Festival: ci presentammo con un brano non proprio sanremese o acchiapperello, come dite voi a Roma (ride). Non avevamo grandi aspettative. E pensare che rifiutammo pure di andare all'Eurovision: cedemmo il posto a Toto Cutugno».
Dodi: «Ma all'epoca non era ambito come oggi: era il festival delle marcette (ride)».


E prima di “Uomini soli” tanti successi ma niente trofei?
Dodi: «In realtà un paio di coppe, se così si può dire, le avevamo vinte. La prima fu Piccola Katy, nel 1968. Ma il successo sembrò un fuoco di paglia. Ci riscattammo nel ’71 con Tanta voglia di lei, il primo grande nostro successo popolare. E nel ’73 arrivò Parsifal, l’album che ci consacrò come musicisti».


Se ripensate alla lunga gavetta, la prima immagine che vi viene in mente qual è?
Riccardo: «Facchinetti che si portava dietro l’organo Hammond con l’inseparabile Leslie, l’altoparlante che andava collegato allo strumento. 120 chili di roba da caricare ogni sera sul palco».


Facevate come Venditti e il pianoforte sulla spalla?
Roby: «Peggio. Per portare tutto sul palco dovevamo tirar giù le due pedane della batteria, metterle una sopra l’altra, caricarci sopra organo e amplificatore: poi dalla seconda pedana al palco c’era un altro metro di dislivello. Era pericolosissimo. In più, dovevamo portare sul palco anche due diffussori alti ciascuno un metro e mezzo. Così ovunque, dal VoomVoom all’Eur al Piper di via Tagliamento. Ma non ci spaventava nulla».


Phil Collins, Ozzy Osbourne, ora anche Bruce Springsteen: le rockstar della vostra generazione sembrano non avere più energie. E i Pooh?
Roby: «Quando hai una vita disordinata e spericolata, poi il conto arriva. Noi abbiamo sempre pensato che la musica fosse la droga migliore».


Fogli, chi è il più scatenato sui palchi?
Riccardo: «Tutti e tre. Io faccio lo scemo, perché non ho uno strumento a tracolla. Loro sono dei ragazzacci: provano per 8 ore cinque giorni su sette. Ripetono le cose finché non bruciano le dita e la gola. E sono maniacali: sul palco suonano gli stessi strumenti che usano quando incidono».


Suonate tutto dal vivo? Nessun aiutino tra playback e sequenze?
Red: «Tutto, sì. Siamo vecchia scuola. La forza ce la dà la gente».
Roby: «Usiamo le sequenze solo per riprodurre certe sonorità dei nostri dischi che dal vivo altrimenti sarebbero irriproducibili».


In scaletta ci sono inediti o vi siete ripromessi di fare solo concerti, rinunciando a scrivere cose nuove?
Red: «Nessun nuovo brano. È già abbastanza difficile scegliere quali suonare e quali lasciare a casa, tra i brani di un repertorio che va da Noi due nel mondo e nell’anima a Pierre, da Dammi solo un minuto a Chi fermerà la musica, da Pensiero a Piccola Katy. Queste, comunque, le faremo tutte: lo show dura due ore e quaranta».


Vi siete per caso dati una scadenza?
Red: «Non siamo mica degli yogurt (ride)».
Roby: «No. Finché avremo stimoli, continueremo: è tutta questione di stimoli».
Riccardo: «Stimoli di che tipo, Roby (ride)?».

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